Oreficeria precolombiana: uno studio
archeometallurgico.
MARCELLO MICCIO
Responsabile del laboratorio Chimico, Centro di Restauro Archeologico, Soprintendenza Archeologica per la Toscana, Firenze.
ALESSANDRO PACINI
Orafo specializzato in tecniche antiche, Montepulciano, Siena.
Introduzione
Lo studio di un gruppo di oggetti in lega d’oro di stile precolombiano, provenienti da una collezione privata, ci ha dato occasione di ammirare i procedimenti tecnici che hanno reso famosi gli orafi di antiche civiltà in America centromeridionale: la fusione a cera persa e la doratura per arricchimento superficiale delle leghe d’oro.
Se la tecnica della fusione a cera persa è ben conosciuta, non altrettanto possiamo dire della cosiddetta doratura per arricchimento superficiale (depletion gilding in inglese, mise en couleur in francese, dorado por oxidación in spagnolo). In realtà tale procedimento di doratura viene tuttora descritto nei manuali per orafi sotto il nome di coloritura, ma è una tecnica che ormai non viene più utilizzata. Il metodo consiste nell’attaccare con sostanze acide la superficie dell’oggetto da dorare, in modo da dissolvere i metalli meno nobili ed “arricchire” d’oro la lega, anche se solo superficialmente. Naturalmente il presupposto è che si lavori con una lega in cui sia presente almeno una bassa percentuale d’oro.
Il gruppo di oggetti è composto da cinque manufatti, riconducibili, per tecnica e stile, alla regione archeologica del Gran Chiriquí, (sudest della Costa Rica e parte della regione confinante panamense) e da un sesto che invece può essere attribuito alla produzione Quimbaya, valle del fiume Cauca, Colombia (fig. da 1 a 6).
Cenni storici
La produzione orafa delle popolazioni precolombiane dell’area del Gran Chiriquí e della Colombia è caratterizzata da splendidi manufatti realizzati spesso con la tecnica della fusione a cera persa. Questa tecnica venne sfruttata in tutte le sue varianti, perfezionandola fino ad ottenere spessori estremamente sottili, anche pochi decimi di millimetro.
Le leghe auree utilizzate dagli orafi precolombiani erano essenzialmente di due tipi: oro argentifero ad alta caratura (di solito leghe superiori a 800‰ corrispondenti alla composizione media dell’oro alluvionale della Costa Rica e Colombia) e leghe artificiali di oro e rame a più bassa caratura note col nome di origine andina di tumbaga. Sembra infatti che il tumbaga abbia fatto la sua apparizione nel Perù precolombiano durante il periodo Chimú antico (1450 a.C.) e si sia diffuso in Colombia e nell’America centrale solo tra il VI ed il VII secolo a.C.
Le leghe di oro e rame offrivano molti vantaggi: il punto di inizio fusione relativamente basso, 970° C nel caso di una lega con il 30% di rame, la scorrevolezza durante il getto, che facilita il riempimento della forma nel procedimento della cera persa, la possibilità di essere notevolmente indurite tramite lavorazione a freddo, caratteristica che fu sfruttata per la produzione di numerosi utensili da orafi, come i ceselli. D’altra parte il loro colore risultava dal rosso rame ad un rosa bronzeo ed è possibile che la doratura per arricchimento superficiale sia stata inventata per sostituire l’oro quando la richiesta di oggetti in metallo nobile aumentò anche tra i ceti meno ricchi delle società precolombiane.
Ecco come Gonzalo Fernandez de Oviedo (1535) descrive la tecnica:
“…. essi sanno molto bene come dorare gli oggetti che producono con rame e oro a basso
titolo. In questo campo essi sono talmente abili e riescono a dare una così grande lucentezza agli oggetti che essi dorano, che sembrano simili a buon oro a 23 o più carati… Essi fanno ciò con una certa erba e altre cose, questa pratica segreta è così efficace che un qualunque orafo in Europa o in qualunque altra parte della Cristianità, usando questa tecnica di doratura, diverrebbe rapidamente ricco.”
Quando i conquistadores imposero alle popolazioni indigene l’obbligo di tributi in oro, il tumbaga fu ancora usato per ingannare gli spagnoli sul titolo della lega, inganno che però fu presto scoperto.
Cenni stilistici
Il gruppo di manufatti riconducibili all’area archeologica del Gran Chiriquí è accomunato dalla scelta di soggetti zoomorfi, tra i quali il coccodrillo e la rana sono …
Lo sforzo nella resa naturalistica è volutamente smorzato da delicate stilizzazioni, come il grande traforo sul becco del pappagallo che riesce anche ad alleggerire notevolmente la figura, o le zampe del coccodrillo con coda a forma di canide, che sono rese con semplici fili paralleli ripiegati su se stessi. Le decorazioni brunite sono nitide ed essenziali e contrastano con il fondo che è stato solo parzialmente levigato dopo la fusione.
Questo gruppo di oggetti può essere datato tra il 700 ed il 1500 d.C.
Si differenzia la statuetta-contenitore antropomorfa raffigurante forse uno sciamano o comunque una figura d’alto rango. Si tratta di un poporo, ossia di un contenitore per calce. La calce veniva usata dalle popolazioni precolombiane come solvente degli alcaloidi contenuti nelle foglie di coca, lo spillone a testa ornitomorfa serviva per estrarla dal vasetto.
La figura ha tratti morbidi ed arrotondati, dettagli stilizzati e decorazione essenziale.
Le caratteristiche stilistiche fanno assegnare questo poporo alla produzione Quimbaya iniziale (200 1000 d. C.).
Analisi tecnologica
I reperti sono stati esaminati allo stereomicroscopio per una prima indagine autoptica. Sono stati effettuati dei micro prelievi per analisi quantitative in Assorbimento Atomico e prelevati dei piccoli frammenti per l’analisi metallografica. Tutti gli oggetti della collezione sono stati sottoposti ad un esame con le EddyCurrents (correnti indotte) per controllare indicativamente la differenziazione delle leghe.
La fusione a cera persa
Tutti i pezzi della collezione sono stati realizzati in fusione a cera persa, la qualità dei getti è ottima, con eccezionale finezza di spessori nel caso del poporo. Possiamo individuare due procedimenti fusori: quello a figura aperta degli oggetti del Gran Chiriquí e quello su nucleo della statuetta Quimbaya.
Nel procedimento a figura aperta questa veniva realizzata con lastre di cera d’api di spessore uniforme (circa 1 mm) che venivano applicate su un modello, presumibilmente in terra argillosa, che serviva per la resa dei volumi, dopodiché, sempre in cera, venivano fatte le decorazioni e le rifiniture. Se la figura non presentava sottosquadri la si poteva distaccare dal supporto in terra che poteva essere riutilizzato per modellare altri soggetti uguali. Parti più piccole potevano essere modellate a parte su nucleo di terra refrattaria ed aggiunte così alla scultura per essere fuse insieme al corpo principale (fig. 7).
Una volta completato il modello in cera si posizionava i canali di colata e gli sfiati, quindi si rivestiva il tutto con la terra di fusione, che di solito era composta da terre argillose e polvere di carbone (El Dorado, 1973). I perni distanziatori di solito non erano necessari, trattandosi di figure aperte. Una tecnica particolare era quella di inserire ornamenti e figurine in cera nella scultura facendo posto nella terra di fusione interna, come nel caso del piccolo inserito tra le fauci del coccodrillo (fig. 8). In altri casi si traforava la superficie della cera quando era sul nucleo di terra, come è stato fatto per il becco del pappagallo.
E’ probabile che le oreficerie a figura aperta della collezione fossero state distaccate dal modellosupporto quando erano ancora in cera, lo si deduce dall’aspetto delle superfici interne delle figure, caratterizzate da un aspetto “spugnato” che di solito resta sulle lastre di cera quando vengono staccate da un supporto rigido, specialmente se vengono applicate dopo essere state scaldate in acqua calda. (fig. 9).
Spesso sono ancora evidenti i punti in cui furono posizionati i canali di fusione, nel pieno rispetto dei principi della fusione a cera persa (fig. 10). Ciò dimostra grande esperienza degli artigiani precolombiani in questa tecnica, come d’altra parte dimostra anche la qualità dei getti.
L’analisi al microscopio ottico ha individuato microcristalli trasparenti, probabilmente quarzo, e particelle di sostanza scura dall’aspetto carbonioso inclusi nelle superfici esterne degli oggetti della collezione (fig. 11). Tali inclusi derivano dalla terra di fusione impiegata che, come detto, era composta da terre argillose e polvere di carbone.
Altra tecnica fusoria che denota grande esperienza è quella della riparazione per sovraffusione. Questa tecnica è stata usata nel caso della maschera: il getto iniziale presentava gravi lacune sull’arcata sopraccigliare sinistra e in gran parte del naso e l’artigiano ha deciso di integrarle in cera, modellando facilmente i dettagli. Una volta “rattoppate” le cavità con la cera ha sistemato i canali di fusione e le ha rivestite con terra di fusione. A questo punto ha cotto tutto l’oggetto per eliminare le “toppe” di cera ed ha effettuato i piccoli getti di metallo il quale ha perfettamente riempito le lacune, senza bisogno di saldature (fig. 12).
Altra tecnica fusoria che denota grande esperienza è quella della riparazione per sovraffusione. Questa tecnica è stata usata nel caso della maschera: il getto iniziale presentava gravi lacune sull’arcata sopraccigliare sinistra e in gran parte del naso e l’artigiano ha deciso di integrarle in cera, modellando facilmente i dettagli. Una volta “rattoppate” le cavità con la cera ha sistemato i canali di fusione e le ha rivestite con terra di fusione. A questo punto ha cotto tutto l’oggetto per eliminare le “toppe” di cera ed ha effettuato i piccoli getti di metallo il quale ha perfettamente riempito le lacune, senza bisogno di saldature (fig. 12).
Le tecniche di rifinitura
Tutte gli oggetti ottenuti in fusione a cera persa venivano pazientemente lavorati con varie tecniche di finitura superficiale. Dopo aver eliminato i canali di fusione con degli scalpelli si procedeva alla levigatura delle superfici con abrasivi naturali, prima più aggressivi, come le rocce arenarie, poi più fini, come sabbie o pietre laviche. A volte si riprendeva dei particolari o si evidenziava dei volumi per martellatura, sistema che aveva anche il vantaggio di compattare e irrobustire il metallo. Allo stesso scopo si impiegava piccoli ceselli o scalpelli in tumbaga indurita (fig. 14, alcuni sono esposti nel museo archeologico di San Juan in Costa Rica), specialmente per eliminare le creste di fusione o per entrare in punti particolarmente difficili. Veniva usata anche la tecnica della brunitura con la quale si lucidava le parti aggettanti del manufatto per farle contrastare con la superficie di fondo lasciata opaca.

Figura 15 – Particolare del piano frontale dello sgabello della statuettapoporo. La lavorazione a scalpellino si concentra lungo il bordo (A) dove sono ancora visibili le tracce lasciate da una spatolina durante la modellazione in cera (B). Le rigature provengono dalla levigatura con abrasivi a grana non uniforme (C).
La tecnica della doratura per arricchimento superficiale è stata provata da analisi spettroscopica in assorbimento atomico, ma già ad un esame al microscopio ottico avevamo notato in alcuni casi delle “macchie” superficiali di colore più rosso: evidentemente in quei punti lo strato superficiale arricchito in oro si era usurato o distaccato, mettendo in luce il colore della lega, spesso ossidato (fig. 16).
Come testimoniato da Gonzalo Fernandez de Oviedo, l’attacco acido necessario a dissolvere in superficie il rame contenuto nella lega veniva fatto con una certa erba e “altre cose”.
Quella certa erba faceva parte della famiglia delle oxalidaceae, a cui appartiene anche la nostra acetosella. Le oxalidaceae contengono acido ossalico e biossalato di potassio, sostanze capaci di dissolvere gli ossidi metallici.
Le “altre cose” potevano essere materie che rinforzavano il principio attivo della pianta, come il cloruro di sodio che ha un’azione disossidante, oppure potevano essere materiali che fungevano da vettori nella dissoluzione degli ossidi, come la terracotta polverizzata. L’arricchimento superficiale è infatti ottenibile sia per via umida, immergendo il pezzo da dorare in bagni acidi caldi, sia per via secca, rivestendolo di impasti acidi per poi calcinarlo. Benvenuto Cellini, grande maestro orafo fiorentino nato nel 1500, ci ha lasciato una semplice ricetta per “colorire” un oggetto in lega d’oro:
Si piglia gromma di botte (cremortartaro) e mattone pesto … e facendo un fornello tondo, nelle commessure del detto fornello, fra l’uno e l’altro mattone, si mette il loto disteso (cioè l’impasto di cremortartaro e polvere di mattone) e di poi si mette i pezzuoli dell’oro … e sopra detto oro, o scudi, si mette altretanto della detta composizione; da poi se gli fa per ventiquattro ore di fuoco, e diviene finissimo di ventiquattro carati.
(I trattati dell’oreficeria e della scultura, cap. XXXVI).
L’ossidazione della lega si poteva facilmente ottenere scaldando all’aria l’oggetto già intorno a 400° C, ma più efficacemente tra i 600 e gli 800 gradi C. Una volta eliminato il rame ossidato si ripeteva il procedimento più volte fino ad ottenere il colore voluto. Tale trattamento, unitamente alle caratteristiche fisiche delle leghe d’oro ad alto contenuto di rame, può causare tensioni residue nel metallo, che, col tempo, possono evolversi in cricche intergranulari (fig. 17).
L’analisi spettroscopica in assorbimento atomico ha dimostrato che la lega di partenza era composta da: 66,89 di Au, 27,91 di Cu, 2,41 di Ag e tracce non significative di ZnSn. mentre la superficie ha una concentrazione di oro pari al 9095% ( 2223 Kt )
Per tutti gli oggetti provenienti dall’area archeologica del Gran Chiriquí i valori delle Eddy–Currents sono stabili e ripetitivi tra 10,5 – 11,5 IACS (stesso valore di una lega standard OroRame a 22 Kt). Il valore medio delle EddyCurrents nel caso della statuettapoporo è leggermente superore ai reperti precedenti. Su questo oggetto la lettura oscilla tre 12 e 13 IACS ( come nelle leghe d’oro a 950‰ circa).
Glossario
Coloritura – Tecniche di dissolvimento del rame e dell’argento dalla superficie delle leghe d’oro per conferire un colore giallo intenso.
Sinonimo di doratura per arricchimento superficiale.
Tumbaga – Nome di origine precolombiana designante le leghe di oro e rame.
Poporo – Piccoli contenitori precolombiani con tappospillone per la calce normalmente realizzati in lega d’oro. Venivano usati per il consumo delle foglie di coca.
Canali di colata – Canali realizzati nelle forme di fusione in terra refrattaria che servono per l’apporto verso la forma del metallo liquido.
Sfiati – Canaletti realizzati nelle forme di fusione che servono per l’evacuazione dei gas che si formano durante il getto del metallo.
Anima – Nella tecnica della fusione cava a cera persa indica il nucleo di terra refrattaria su cui si applica la figura in cera.
Creste di fusione – Sbavature longitudinali di metallo sulla superficie del manufatto realizzato per fusione. Sono difetti di fusione spesso dovuti a cedimento del rivestimento refrattario. Brunitura – In oreficeria è la tecnica di lucidatura effettuata con i brunitoi, utensili in agata o acciaio ben lucidati con i quali viene compressa la superficie del manufatto.
Oxalidaceae – Botanica. piante erbacee spesso con rizomi o tuberi. Nei tropici anche piante legnose. Contengono acido ossalico.
Bibliografia
Gonzalo Fernandez de Oviedo, Historia General y Natural de las Indias Islas y tierra firme del mar Océano, Asunción, 1535.
Benvenuto Cellini, I trattati dell’oreficeria e della scultura, edizione curata da A. Paoletti, Firenze, 1994.
Mark Grimwade, Arricchimento superficiale delle leghe d’oro per gioielleriadoratura per impoverimento, in: Gold Technology, n.26, 1999.
Patricia Fernández Esquivel, Oro precolombino de Costa Rica, catalogo del Museo, Fundacion museos banco central, San José, 2004.
El Dorado, edizione del cinquantenario del Museo del Oro di Bogotà, Litografia Arco, Bogotà, 1973.
Marcello Miccio
Responsabile del laboratorio Chimico Sezione” Metalli”
Centro di Restauro Archeologico
Soprintendenza Archeologica per la Toscana FIRENZE
Largo il Boschetto, 3
tel. 055.700953 fax 055.7131694
Alessandro Pacini
Artigiano orafo specializzato in archeometallurgia
Presso laboratorio Aliseda Via dell’Opio nel Corso, 8 I53045 Montepulciano (SI) Tel 0578 758672